Memorie di un collezionista di maglie NBA

2022-09-02 20:00:52 By : Mr. Tracy Han

Una volta entrati non se ne esce più.

Il messaggio arriva a metà mattina, tra una mail di lavoro e l’ennesima telefonata che non può proprio aspettare: “Ciao Cla, come stai? Senti ho una #6 nera di LeBron a Miami che mi avanza, magari ti interessa…”.

Il mio interlocutore sa dove e come colpire: certo che mi interessa, sono mesi che la sto cercando. Oddio, “cercando” è probabilmente una parola grossa: da quando sono andato a convivere mi sono ripromesso che, con affitto e bollette da pagare, era il caso di darci un taglio. Quindi basta NBA Store, basta notifiche sui nuovi arrivi da Ebay, Amazon e Zalando, basta gruppi Facebook di vendite e scambi, basta quel sito americano di cimeli sportivi che vende la match worn di Jordan dei tempi di North Carolina a soli 7.999 dollari, basta qualsiasi cosa che possa indurmi in tentazione: in fondo non puoi desiderare ciò che non vedi, anche se ciò che non vedi è quello che desideri. Forse.

“Mmm non saprei. Mandami qualche foto…”.

Ecco ci risiamo, sta succedendo di nuovo. Lo so, lo sento e quindi cerco di fare appello alla mia parte razionale, di trovare un appiglio che mi riconduca sulla via della maturità e della ragione. Magari è un falso: mi basterà dare un’occhiata ad alcuni particolari per accorgermene e tornare ai soliti rassicuranti stress da lunedì lavorativo in zona rossa. Le foto arrivano: cuciture perfette, etichette al loro posto, font e lettering delle dimensioni giuste, inserti, colori e dettagli del logo inappuntabili. Se è un falso è fatto bene, anzi benissimo. Ma non è un falso, per fortuna. Anzi, purtroppo.

Ultimo baluardo, la speranza che spari una cifra improponibile, magari a tre cifre.

“Guarda: proprio perché sei tu, perché so quanto ci tieni e perché comunque devo darla via te la do a un terzo del suo prezzo attuale”.

Ciao, mi chiamo Claudio Pellecchia, ho 33 anni, sono un NBA jerseys addicted e sono di nuovo dentro la mia ossessione preferita. E se Pep Guardiola sogna di chiudere una partita con il 100% di possesso palla con una squadra formata di soli centrocampisti, io sogno di possedere tutte le maglie – passate, presenti e future – delle 30 franchigie NBA: tra i due chi ci andrà più vicino a realizzare la sua personale utopia sarà lui, eppure questo non basta, non basterà mai, a fermarmi, a comprendere i limiti della mia follia. Ho resistito quattro mesi e sono bastati quattro minuti per farmi vacillare prima e cedere poi. Perché è chiaro che non mi sia fatto bastare la #6 di LBJ: due ore dopo il ritiro ero già lì, su Spazio Jerseys, completamente privo di freni inibitori, obnubilato da forme, colori e numeri, schiavo dalla mia insana passione per il vintage.

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Maglia di T-Mac degli Houston Rockets a 50 euro? Presa.

Maglia Team USA di Kobe delle Olimpiadi 2012 a 150? Mia.

Tre in meno di 72 ore, nuovo record personale. Adesso si tratta “solo” di aspettare il corriere e ricominciare. Perché, in fondo, l’attesa della jersey è essa stessa la jersey, come e più della jersey in sé: la consegna, l’unboxing, la foto da postare sui social come un ritratto di Dorian Gray alla rovescia – nel senso che io posso invecchiare, e invecchierò, ma le maglie dovranno restare sempre e per sempre giovani, belle e nuove come nel momento in cui le ho tra le mani per la prima volta – sono solo un momento di transizione verso il prossimo ordine da tracciare, il prossimo corriere, la prossima jersey, il prossimo unboxing, la prossima foto. E così in loop.

Non è il possesso ma l’idea del possesso, proiettata in una dimensione ulteriore in cui l’adrenalina dell’attesa supera di gran lunga tutto ciò che hai provato, o avresti dovuto provare, nel momento in cui la maglia puoi vederla, sentirla, toccarla, metterla insieme a tutte le altre della collezione solo per vedere l’effetto che fa. Si può quasi dire che, più della gioia, a prevalere sia il sollievo di sapere che, da oggi in poi, lei è al sicuro in quella scatola, in quel cassetto, in quell’armadio e che tu potrai andare a riguardarla tutte le volte che ne avrai voglia, se ne avrai voglia.

Indossarle? Mai. O meglio: non sempre e non tutte. E non è questione di timore che possano sgualcirsi, sporcarsi o, peggio ancora, danneggiarsi per una serie casuale, imprevedibile e sfortunata di eventi. Cioè c’è anche quello ma non solo. Verso alcune di loro provo qualcosa che è a metà tra il timore reverenziale e l’orgoglio di possedere qualcosa di raro, unico e speciale, qualcosa che è soltanto mio anche se tale non è e non può essere. La #23 di Jordan delle Finals 1998, per esempio. La comprai all’NBA Store di piazza San Babila a Milano: ero entrato solo per fare un giro in attesa che si facesse l’ora per il mio appuntamento – giuro! – e uscii con 250 euro in meno, cercando di mettere a tacere la voce della mia coscienza che mi diceva che “non si possono spendere tutti quei soldi per una maglia. Torna dentro e metti le cose a posto”.

Con il tempo ho imparato a gestire quella sensazione da “che cazzo sto facendo” mentre digito il pin della mia carta, ma non il mio modo di pormi verso quella maglia: è ancora lì, nella sua scatola, con il cartellino attaccato, piegata con cura in modo che le cuciture di lettere, numeri e loghi, non si rovinino, nella sua perfetta combinazione di rosso e nero che mi riportano ai tempi in cui era ancora consentito sognare ascoltando gli Alan Parson Projects mentre aspettavo che “Annnnnnnnnnnnnnnnnnnnd now… The Starting lineup for your World Champion, Chicago Bulls!!”. No, non credo proprio che riuscirò mai a metterla: ne ho troppo rispetto, ne ho troppa paura, come se non fosse la maglia di Michael Jordan ma Michael Jordan in persona, il mio Michael Jordan personale.

Potrebbe sembrare una visione delle cose abbastanza infantile, e forse lo è, anche se credo sia esattamente l’opposto. Da bambini le maglie dei nostri giocatori preferiti non sono altro che la proiezione del nostro voler essere come loro, di sentirci come loro indossando l’elemento visivo che li distingue da tutti gli altri; crescendo ho capito che ero (e sono) attirato dalle maglie per via delle storie che si portano dietro – tanto da creare un profilo Instagram dedicato –, per via del ricordo di chi ero e cosa facevo mentre Jordan metteva “The Last Shot”, mentre Iverson ne faceva 48 ai Lakers di Kobe&Shaq, mentre McGrady faceva domandare a Federico Buffa e Flavio Tranquillo se anche noi credessimo al miracolo dei 13 punti in 35 secondi che si era materializzato davanti ai nostri occhi.

Storie individuali che diventano collettive e viceversa e che rivivono ogni volta in cui mi trovo a scegliere il nuovo pezzo da prendere, convincendomi che non esiste un prezzo troppo alto per i nostri ricordi e le nostre emozioni. Cose che, di per sé, un prezzo nemmeno lo dovrebbero avere e che pure sono, al pari di una city edition dei Brooklyn Nets o dei Miami Heat, l’espressione lisergica della nostra personalità.

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Si tratta di un discorso che anche le donne, anzi soprattutto le donne, possono comprendere per via di quella loro capacità di trovare sempre e comunque il giusto compromesso tra il capo d’abbigliamento che indossano – loro sì – e un certo modo d’essere, di fare, di pensare. Dimenticate lo stereotipo della ragazza che vi rimprovera perché non siete cresciuti abbastanza: dopo anni in cui la mia ex non faceva altro che chiedersi come fosse possibile che un uomo adulto spendesse davvero così tanto in queste cose – poi la swingman di Steph Curry me l’ha regalata comunque, pur scuotendo interiormente la testa – oggi la mia attuale metà sa che quel luccichio che vede nei miei occhi ogni volta che entriamo “per fare un giro” sarà sempre parte di me. E, quindi, mi asseconda senza giudicarmi. Nei limiti del buonsenso, lo stesso che le ho giurato quando, prenotando il viaggio a New York che la pandemia ha cancellato, ero riuscito a strappare la promessa di un pomeriggio da passare nello store a cinque piani della Fifth Avenue: a Barcellona ha voluto a tutti i costi regalarmi la canotta di Irving mentre cercavo (blandamente) di dissuaderla, al primo San Valentino ho trovato quella di Towns – “mi piaceva l’accostamento di colori” – nella classica scatola a forma di cuore, per i miei 33 anni ho ricevuto la #33 di Kareem Abdul-Jabbar.

Cosa potrei volere di più dalla vita? Ma un’altra jersey, ovviamente.

Anzi, ora che ci penso: mi ha appena citofonato il corriere, c’è un pacco che mi aspetta. Tra poco si ricomincia.