«Lì siamo diventati uomini»: così il rugby sfidò l’apartheid- Corriere.it

2022-09-30 19:56:44 By : Ms. Josie Wu

Abbiamo scollegato in automatico la tua precedente sessione

Puoi navigare al massimo da 3 dispositivi o browser

Per continuare la navigazione devi scollegare un'altra sessione

Da mobile puoi navigare al massimo da 2 dispositivi o browser.

Per continuare la navigazione devi scollegare un'altra sessione.

Attiva le notifiche per ricevere un avviso ogni volta che viene pubblicato un nuovo articolo in questa sezione.

Vuoi modificare le tue preferenze? Visita la tua area personale

Elezioni, le ultime notizie in attesa del nuovo governo

Salva questo articolo e leggilo quando vuoi. Il servizio è dedicato agli utenti registrati.

Trovi tutti gli articoli salvati nella tua area personale nella sezione preferiti e sull'app Corriere News.

«Non puoi fidarti di gente così. Storia della squadra di rugby che sfidò l’apartheid» di Massimo Calandri (verrà presentato stasera in città) ripercorre la trasferta della nazionale italiana in Sudafrica nel 1973: tra di loro anche il bresciano Salvatore Bonetti.

Quelli scarsi, quelli mingherlini. Quelli arroganti «ma romantici», quelli — tutti — che ancora si emozionano. Perché «siamo partiti 27 ragazzi, ma siamo tornati 27 uomini ». E nemmeno se ne sono resi conto, al tempo, anche solo di quanto davvero, con lo sport, abbiano contribuito all’unione dei popoli. È il 1973. Estate. Nessuna nazionale di rugby, nonostante le suppliche, può anche solo pensare, tantomeno accettare, di partecipare a una tournee di un mese in Rhodesia e nel Sudafrica dell’apartheid che così cerca di spezzare il boicottaggio estero e interrompere l’isolamento. «Non ci restano che gli italiani», dirà Danie Craven, presidente della South African Rugby Board a un collaboratore. «Ma sei pazzo? Quella gente non gioca a rugby. Piccoli, gracili, indisciplinati, bugiardi vigliacchi, isterici».

Tutti gli altri hanno detto no. Anche l’Italia, dal canto suo, è «isolata»: bistrattata dalle formazioni britanniche, da Argentina, Nuova Zelanda. È l’occasione di sempre. E sarà la svolta. Organizzando un viaggio semiclandestino (il Coni si oppone) la «selezione italiana», improbabile e inesperta al cospetto di quei campioni che brama di conoscere, parte il 13 giugno , verso «il paradiso» della palla ovale. Nove match in 25 giorni. A una condizione: sfidare i Leopards, cioè la nazionale nera, bantu. Tra i ragazzi c’è anche Salvatore Bonetti, originario di Lumezzane, di casa per anni in Valtrompia : terza linea, «un uomo di mischia, un colosso di energia che non ha mai trascorso un solo giorno in palestra». Perché «questa forza è un dono di Dio — dice — o forse è tutto merito di mio padre, o magari del tornio». Bello, educato, sempre in ordine. Dalla serie C alla A fino alla Nazionale ci arriva in due stagioni. «Boni, ti prego (poi diventerà Nembo Kid, il nome italiano di Superman), fermati qui, a Città del Capo: giocherai con me, nella Western Province, una delle squadre più forti del mondo»: a chiederglielo, durante la trasferta, è Dugald Alexander MacDonald, 23 anni, il miglior numero 8 del Sudafrica, già compagno di squadra di Bonetti nel Parma: è arrivato a Durban, in occasione di un incontro, apposta per fargli la proposta della vita. Si commuove. Ma «no, grazie », risponde commosso dopo essersi perso nei ricordi sin da quando, bambino, era in collegio. O alla sua Norma.

Lo si legge nelle pagine de «Non puoi fidarti di gente così. Storia della squadra di rugby che sfidò l’apartheid» (Mondadori) scritto dal giornalista di Repubblica Massimo Calandri. Un grandissimo lavoro di archivio, il suo, imbastito sulle testimonianze di chi, quel viaggio impossibile non lo può dimenticare. Partirono per conoscere i migliori e perché lo sport diventasse veicolo di fratellanza. Conobbero le ingiustizie di una terra incredibile dai paesaggi incantevoli e li trasmisero alla gente. Cercarono di capire l’apartheid. Suscitarono le simpatie dei bianchi e dei neri. Incrociarono Mandela e Biko. E ogni volta, in campo, era una partita in difesa dei diritti umani. Vinsero solo contro i Leopards e lanciarono le maglie ai tifosi neri dopo la vittoria innescando la gioia di chi, ai bianchi, manco poteva stare vicino e che a loro disse grazie. Il rugby italiano, insomma, unì il Sudafrica. «Per me scrivere questo libro è stata un’avventura, che mi ha permesso di conoscere personaggi che vedevo come totem, idoli, protagonisti di una sorta di viaggio di Salgari» racconta Calandri. «Pensato come un libro sportivo, ho capito che le storie umane erano ancora più incredibili: le sensazioni, la commozione che ci ha travolto tutti alla fine!». Un «mosaico di personalità» che «mi hanno regalato un patrimonio umanamente bellissimo». Questa sera il libro sarà presentato allo Stadio Aldo Invernici di via Maggia, in città . Con l’autore ci saranno Salvatore Bonetti, Ettore Abbiati e Ambrogio Bona, che fecero parte della squadra

Il sì del campione olimpico dei 100 e di Nicole Daza

Autorizzaci a leggere i tuoi dati di navigazione per attività di analisi e profilazione. Così la tua area personale sarà sempre più ricca di contenuti in linea con i tuoi interessi.